Empatia e Soggettività delle Emozioni

Empatia e Soggettività delle Emozioni

Qualche giorno fa passo a ritirare gli esiti di un esame del sangue presso l’ambulatorio della mia città. Una signora di circa 80 anni mi ferma chiedendomi del mio pancione, ormai piuttosto evidente anche sotto al giaccone invernale.

Mi piace questa capacità della gravidanza di abbattere le barriere sociali e agevolare la socializzazione tra perfetti estranei.

“Maschio o femmina?”, “È il primo?”, “Quando nasce?”… Domande ormai di rito, cui comunque personalmente mi fa sempre piacere rispondere. Mi piace questa capacità della gravidanza di abbattere le barriere sociali e agevolare la socializzazione tra perfetti estranei.

Poi la signora, noncurante della mia fretta mattutina, inizia a raccontarmi di suo figlio (ormai, immagino, circa cinquantenne), della sua nascita prematura e del fatto che aveva passato un mese e cinque giorni in ospedale prima di poterlo portare a casa.

Le chiedo se è poi stato bene, e lei mi risponde sorridendo di sì – “Ah… sì, sì… tutto a posto!” – e chissà quanta della vita di quel figlio, iniziata con un po’ di fatica, mi avrebbe ancora raccontato se a quel punto una signora non l’avesse chiamata: “Mamma, vieni – Dobbiamo andare!”.

Mi sorride, quasi a scusarsi dell’invadenza della madre, che in realtà mi ha tolto solo un minuto del tempo dedicato alle commissioni di corsa prima di andare al lavoro, regalandomi in cambio un momento di confidenza inaspettato, e una piacevole sensazione di vicinanza che mi porto dietro, e che decido di mettere qui per iscritto.

La soggettività delle reazioni e delle emozioni

Perché vi sto raccontando tutto questo? Vorrei soffermarmi sulle parole che mi hanno più lasciato il segno nel dialogo che ho avuto con questa signora ottantenne.

…e cinque giorni”. I cinque giorni in più, dopo il primo mese, trascorsi in ospedale da quel neonato di cinquant’anni fa; cinque giorni in più nella trepidante attesa di poterselo finalmente portare a casa per la sua mamma.

Mi colpiscono perché, a cinquant’anni di distanza, sono ancora così importanti per quella signora da precisarli nel racconto sbrigativo ad un’estranea incontrata nella sala d’attesa di un ambulatorio. Avrebbe potuto dire “un mese”, “più di un mese”… e invece ha precisato: “Un mese e cinque giorni”!

Mi immagino quanto ciascuno di quei cinque giorni sia stato per lei difficile, faticoso, doloroso, importante, pieno di speranza… e questo pensiero mi porta a riflettere su un tema che mi sembra essenziale nel parlare di psicoterapia: quello della soggettività di ogni nostro stato, di ogni nostra reazione ed emozione. Per soggettività intendo il valore unico ed irripetibile che ogni evento ha nella mente della persona che lo vive.

Soggettività e giudizio

Spesso ci capita di meravigliarci, di vergognarci, a volte addirittura di scusarci per le nostre reazioni a particolari eventi.

“Ma si può reagire così ad una stupidata del genere?!”, “Non capisco perché questa cosa mi stia mandando tanto in crisi!”, “Certo che ormai sono passati tre mesi, non dovrei più pensarci così tanto!”.

E invece no. Le nostre reazioni sono le uniche sensate, le uniche comprensibili, le uniche “giuste”, per noi, di fronte a quel particolare evento.

Questo perché chiunque, guardando le cose dal nostro punto di vista, con la nostra particolare ed unica sensibilità, avendo alle spalle la nostra storia, trovandosi nella particolare fase della vita in cui ci troviamo noi, ed in quella particolare giornata, reagirebbe così.

Certo, a volte per gli altri può essere difficile capirci; a volte noi stessi, ripensandoci “a mente fredda” o in maniera puramente razionale, fatichiamo a comprendere il perché delle nostre parole, dei nostri comportamenti, dei nostri pensieri ed emozioni di fronte ad un determinato evento o in particolari circostanze… e talvolta finiamo col giudicarci molto duramente. Questo giudizio può finire col farci stare male più del fatto e della nostra emozione in sé, per quanto dolorosa.

Empatia e Significati Soggettivi

Spesso si parla dell’empatia come di una delle capacità essenziali per un bravo psicologo.

Credo che l’empatia nel nostro mestiere non sia la volontà di immedesimarci automaticamente ed in maniera quasi magica con chiunque ci racconti ciò che stia passando. Questo sarebbe davvero difficile, avendo ognuno di noi una storia e vicende personali tanto lontane le une dalle altre.

Piuttosto, l’empatia è la capacità di mantenersi sempre consapevoli del significato soggettivo che le emozioni e i modi di comportarsi che ci vengono raccontati necessariamente hanno. Cogliere questo significato e saperlo restituire in tutto il suo valore alla persona che abbiamo di fronte è il passaggio successivo ed il compito dello psicologo.